Tutte le volte che si verifica un fatto scabroso di cronaca nera, in cui l’insospettabile familiare o vicino di casa commette un atto di violenza inspiegabile per la nostra logica e inaccettabile per la nostra morale, viene ingiustamente tirata in ballo da giornali e TV la depressione. Secondo quanto si ricava da molti media, se una madre uccide un figlio o se uno zio stupra la nipote, è perché soffriva di qualche forma di depressione. Dopo questi fatti di cronaca è esperienza comune per lo psichiatra ricevere pazienti allarmati dal battage mediatico: “Ma se la depressione porta a questo, anch’io dottoressa lo potrei fare?” “…Non riesco più a stare tranquilla, con la depressione mi potrebbe prendere un raptus e ammazzare mio figlio senza ragione?” E così, nonostante tutta l’informazione che gli psichiatri e i vari operatori del settore cercano di fare contro lo stigma della depressione, non manca occasione per disinformare, allarmare e fomentare i pregiudizi. Molti pazienti mi hanno chiesto più volte di intervenire contro questo tipo di mala-informazione. Stamani, in treno, mi sono decisa a scrivere di getto queste righe dopo avere letto un’intervista ad una psicologa-sessuologa (sic!) che ha dichiarato che anche lo zio di Sarah “nascondeva una forma sottostante di depressione”.

Chiariamoci le idee. In primo luogo chi è affetto da depressione non può commettere atti di tale violenza, perché la depressione vera e propria, secondo l’accezione medica del termine, si caratterizza per una riduzione-assenza delle energie vitali, delle capacità a fare e non si può associare per definizione a comportamenti aggressivi o violenti. Anche lo stesso suicidio, che è un atto di violenza contro la propria persona, più che nel paziente depresso lo si ritrova nei così detti “stati misti”, cioè quelle condizioni in cui oltre a sintomi propri della depressione si ritrovano manifestazioni di eccitazione (forte agitazione, irrequietezza). Di fatto alcuni episodi di suicidio-omicidio (per fortuna molto rari a fronte delle elevate percentuali di persone affette da disturbi nervosi in genere) sono sottesi da stati misti o da “psicosi puerperali”. Ma se si guarda alla cronaca, in questi casi chi è attore del fatto viene rapidamente trovato, il più delle volte in stato confusionale (come nel caso della madre che aveva ucciso il figlio in lavatrice), o si costituisce volontariamente o tenta il suicidio, talora con successo. In tutti gli altri casi pensare alla “depressione” come spiegazione di tutti i mali e della violenza – che purtroppo può essere consustanziale alla natura umana a prescindere da ogni tipo di processo morboso – riflette un’impostazione semplicistica del problema che fa cattivo servizio a tutti: a chi soffre di depressione e non si merita di essere stigmatizzato anche per ciò che non gli attiene, a chi opera nel settore e vede vanificati tutti i tentativi di fare chiarezza sui disturbi dell’umore, al cittadino che si meriterebbe un’informazione appropriata e non grossolana.

Cristina Toni